L’ho cercata tra i molti in attesa, ho pronunciato il suo nome a
voce alta.
Poi tra la folla, ho
visto un braccio alzarsi e ho scorto due occhi annuenti.
Due occhi color cielo che hanno risposto per lei.
Le ho salutate e accompagnate dentro, spingendo quel lettuccio
rotante, ma lei non mi ha sorriso.
Solo dopo ho capito perché di occhi annuenti
ne avevo incrociato un unico paio e non due. I suoi, altrettanto celesti, come
a volermeli mostrare, li avevi aperti solo dopo alcuni minuti, mentre l’altra
diceva al suo posto quanto fosse accaduto.
Lei si lamentava e non
parlava.
I due occhi “parlanti” ci hanno raccontato di quella sofferenza
e di quella stanchezza del vivere recente, del distacco dall’amore di una vita
affianco del quale aveva camminato per decenni verso la costruzione di una
famiglia, di un rifugio sicuro e di un riparo d’amore vero. Ci erano riusciti,
diceva.
Gli occhi parlanti, si
sono commossi. Io avrei voluto poterli sfiorare, come si sfiora con la mano
l’acqua marina d’estate, ma mi sono limitata a stringere uno dei piedi,
appartenenti a quei due occhi spenti che non volevano più prendere voce.
La voce narrante ci ha raccontato di come quella mattina si
fosse accasciata.
Era successo mentre, come ogni giorno, preparava il pranzo.
Non cucinava solo per lei, ma anche per i due figli e le
rispettive famiglie. Era solita dire che sporcare più di una pentola per una
sola persona, non valeva la pena. Cucinare per loro era la sua motivazione e da
quando era rimasta sola glielo lasciavano fare.
Quella mattina però, il coltello ed il tagliere erano cascati
dal tavolo trascinando giù i quadratini di melanzane e con loro, anche il suo
corpo minuto era atterrato sul pavimento. Da lì la figlia lo aveva raccolto,
come si fa con le foglie caduche.
Per questo era lì lamentosa e confusa.
Quella donnina dai capelli grigi e dagli occhi celesti, mi è
rimasta in testa per tutta la mattinata. Pensavo a quante ricette si erano
potute susseguire in tutti quei decenni. Pensavo alla sua cucina come un
laboratorio artistico nel quale ideare, perfezionare e battezzare nuove cose.
Pensavo a ogni piatto come al risultato di una ricetta di felicità.
Quanti non vorrebbero possedere la ricetta della felicità?
Forse spendiamo tempo a cercare le dosi esatte, le più appropriate
combinazioni di ingredienti e i processi di cottura ideali supponendo che la
ricetta più ambita da mettere a punto sia solo una.
Si è soliti dire che la felicità non equivale all’esito
ottenuto, ma a tutte quei procedimenti che mettiamo in atto per produrre quel
risultato. Sarà vero.
Forse la felicità corrisponde all’ultimo boccone di ogni
portata, quel boccone che ti fa essere grato a chi per te ha cucinato, a chi ti
ha aspettato mentre eri imbottigliato nel traffico dopo il lavoro, a chi ti ha
detto “grazie per essere venuto”, a chi ti ha sorriso vedendoti arrivare, a chi
con te ha mangiato.
A chi ti ha pensato a te, mentre tagliauzzava i quadratini di
melanzane, sperando di renderti felice.
Biscotti alla farina di kamut e miele
Ingredienti:
150 g di farina integrale,
150 g di farina kamut,
75 g di burro morbido,
80 g di zucchero di canna,
1 uovo,
60 g di miele di fiori d’acacia,
1 cucchiaino li lievito per dolci.
Procedimento:
Disporre a fontana le farine. Porre al centro l’uovo e lo
zucchero.
Impastare e man mano aggiungere il resto degli ingredienti: burro,
miele e lievito.
Far riposare in frigo l’impasto per 30 minuti.
Stendere sulla spianatoia la frolla con uno spessore di 6mm e
utilizzare un coppapasta o una rotella tagliapasta per ricavare i biscotti
della forma che preferiamo. Io per decorarli ho punzecchiato la superficie con
uno stuzzicadenti.
Cuocere in forno a 170 °C per 15 minuti.
La cottura è molto veloce, bisogna tenerli sotto controllo! Io
ho bruciacchiato la prima infornata!
Sono biscotti ideali per accompagnare una tazza di tè. Restano fragranti
e croccanti per giorni se chiusi in una scatola di latta o in una biscottiera.
Alla prossima
Maria
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